Il contributo culturale ed epistemologico dato dall’arte di Celentano
di Daniele Luttazzi
Claudia Mori scrive all’Ad Rossi: “Adriano Celentano vuole tornare in Rai, ma voi non rispondete” (fanpage.it, 10.9)
I paragrafi seguenti muovono da un’ipotesi di metodo che ha stupito anche me per la sua efficacia euristica. L’ipotesi è che in tv Adriano Celentano abbia dato importanti contributi in vari campi del sapere e segnatamente in alcuni settori dell’epistemologia e delle scienze umane. Scopo di questi paragrafi è segnalare tali contributi all’attenzione degli studiosi che, distratti da chissà quali cazzate, possano non avervi attribuito il valore che meritano.
Sul piano culturale Celentano delinea un orientamento che potrebbe definirsi passatista a causa della sua decisa avversione verso la razionalità dei tempi moderni.
Egli adotta una prospettiva à rébours i cui elementi sono accomunati non da un’unità di sistema, ma dal languore per un tempo in cui c’era l’erba dove adesso c’è una città, e quella casa in mezzo al verde ormai dove sarà. Nell’adozione di questa prospettiva emerge l’evidente inclinazionedi Celentano verso il popolo. Forse memore dell’antico vox populi, vox Dei, Celentano arrivò in un suo film (Joan Lui) a suggerire la propria origine divina, ipotesi che un inopinato fiasco al botteghino, peraltro, non legittimò. Ma tant’è: il percorso dei grandi predestinati è sempre faticoso e lastricato di incomprensioni. L’inclinazione populistica della prassi celentaniana apre al suo interno una contraddizione (il cuore si spaura al pensiero, sed magis amica veritas). Sproloquiando in tv sui temi più diversi, infatti, Celentano pare spesso ispirarsi al principio dell’improvvisazione bislacca, cosa che, sostengono gli esperti, dovrebbe disorientare il telespettatore fino a indurlo a cambiare canale, se non a lanciare la tv sulla strada sottostante.
Perché con Celentano no? Per capirlo occorre ricondurre a un tutto coerente i due aspetti apparentemente contraddittori, immaginando una fusione diretta del mattatore col suo popolo: il Capo come unico interprete autentico, senza mediazioni formalistiche, del Volksgeist e della Heimat, che provvede in solitudine al bene di tutti. È la lezionedi Carl Schmitt.
Sul piano epistemologico la prassi celentaniana ha dato finora contributi non numerosi, ma tutti essenziali. Celentano quasi si compiace di spaesare l’uditorio mettendolo di fronte ad alternative radicali, forse le più coerenti con le radici autentiche del suo pensiero: “Il doppiopetto è lento, i jeans sono rock. Il direttore della scuola è lento, la maestrina è rock. Il cannone è lento, i fiori sono rock”. Senza perder tempo a discutere le tesi, complicate ma inutili, di filosofi del linguaggio come Grice e Hintikka, Celentano adotta cioè una logica a due valori (lento, rock) che gli permette di proporsi come deciso fautore dell’assunto fondamentale per cui ciò che egli dice è assolutamente vero. Sullo sfondo del discorso celentaniano c’è infatti l’idea della verità come consenso, e il metodo del consenso è la reiterazione del messaggio, fino alla tautologia auto-illuminante (“La fanfara è lenta, il rock è rock”). Il risultato è l’indiscutibile verità delle enunciazioni. Le enunciazioni di Celentano sono vere. “Il Papa è rock. Ratzinger”, disse pure alla fine di una puntata, di fronte a un attonito Ligabue.
Un’analista alla Lévy-Bruhl direbbe che questo coinvolgimento del rappresentante di Dio sulla Terra ha dell’irrazionale e come tale andrebbe confinato all’epoca in cui l’epistemologia non disponeva di strumenti più sofisticati. Al contrario, il ricorso all’icona papale evoca la rinascita dell’ Europa dopo le invasioni barbariche, il senso mistico della vita, gli affetti fondamentali dell’uomo. Un’audience record, nel 2005, premiò tutto questo. Il popolo si espresse per acclamazione. Fu un plebiscito. E il plebiscito è rock.
18/09/2025 – Il Fatto Quotidiano




