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Vespa se 60 vi sembran pochi

Da Vacanze Romane ai Lunapòp

Un'immagine pubblicitaria del calendario della Vespa del 1951

PONTEDERA. La Vespa c’era. C’è sempre stata. E’ nata quando l’Italia era ancora monarchica, appena dopo la Moka Bialetti, ma prima della Olivetti Lettera 22. Persino Ben Hur l’ha guidata, peraltro sei anni dopo l’immortale Gregory Peck e l’eterna Audrey Hepburn. I vespisti, intesi come adepti della due ruote, circolano da tempo nello Zingarelli. La Vespa è un pezzo della Repubblica, insieme alla Cinquecento ne rappresenta la colonna mobile, zelig capace di attraversare i decenni senza mai cambiare e cambiando mille volte, matrimoniale e birichina, rassicurante e scandalosa. «La prima cosa interamente italiana dai tempi della biga», come scrisse il «Times» alla sua apparizione. Non è un caso che per celebrare il suo sessantesimo compleanno – il brevetto fu depositato il 23 aprile 1946 – i vertici dell’azienda, il Presidente Roberto Colaninno e l’amministratore delegato Rocco Sabelli in testa, abbiano chiamato ieri a Pontedera, all’interno del Museo Piaggio intitolato a Giovanni Alberto Agnelli, il giornalista più istituzionale e omonimo possibile: Bruno Vespa. Con loro Massimiliano Fuksas, l’architetto che ha progettato la nuova casa del Museo, un capannone che pare arrivare da un futuro vintage, pieno di arnie di vetro, pronto si spera nel giro di un anno. L’11 maggio Colaninno presenterà invece in Campidoglio un nuovo modello, uno scooter a tre ruote, prevedibilmente rivoluzionario. E’ la storia che si rinnova.

La Vespa nacque nel dopoguerra dai rovelli immaginosi di Enrico Piaggio, figlio del patriarca Rinaldo, che insieme al fratello Armando decise di ricostruire sulle macerie delle bombardatissime industrie Piaggio – arredi navali, motori, tram, treni, idrovolanti e aeroplani, da Pontedera a Genova, a Biella – una impresa tutta nuova, scommettendo sulla voglia di mobilità di un Paese che non sapeva ancora di avere davanti un boom. L’idea gli ronzava in testa già dagli ultimi anni di guerra, quando aveva prodotto motocicli per usi militari. Affidò a un ingegnere aeronautico geniale e leonardesco, Corradino D’Ascanio, il compito di pensare a un mezzo economico, di largo consumo. D’Ascanio, che aveva inventato (eh sì) l’elicottero costruendoselo nel garage, fra un balocco per i nipotini amatissimi e lo schizzo per la Littorina, odiava però le moto. Le giudicava scomode, sporche, mostri senza carena. Amava gli aerei, il volo, le idee comode all’aria. Così l’oggetto che gli spuntò dalla matita, già dal primo e bocciato prototipo, il «paperino», fu di natura femminile, leggera ma abitabile, civettuola e funzionale. Una ninfa meccanica, ricoperta da un velo di acciaio, con il manubrio esile da bicicletta, il «ventre» copiato dalla carlinga di un’aereo, e una «vita» stretta che consentiva una seduta pratica anche per utenti in gonna e tacchi alti. «Pare una vespa», disse Piaggio, e fu il battesimo.

Pensata già ab origine come due-posti, prima nella versione da 98 cc, poi da 150 cc, la Vespa dopo una breve incertezza iniziò a sciamare, sopra la Penisola e nel mondo. Creatura diabolica per i bigotti che vedevano sfrecciare giovani ragazze in gonna danzante e foulard, scabrosamente abbrancate al moroso. Ma perfetto strumento di emancipazione negli incunaboli di un miracolo economico che ancora non offriva alla classe operaia stipendi sufficienti all’acquisto di un’automobile: costava 55 mila lire, 61 nella versione lusso. Moderna, trendy, romantica. Ovidiana, nella sua passione per le metamorfosi: la Vespa ha corso la Dakar (nell’80) e il rally di Montecarlo (nel ’59). Il modello del ’51 era quello maltrattato dal duo Peck-Hepburn in «Vacanze Romane», anno 1953, ma l’esercito francese ne ordinò una versone con tanto di cannone incorporato. Ne esiste un esemplare decorato da Salvador Dalì, uno jamesbondistico con tanto di elica per decollare sul set. La Vespa siluro ha stabilito record di velocità, il giornalista Giorgio Bettinelli ha percorso più di 250 mila chilometri, da un capo all’altro del pianeta: ieri era in collegamento video da Hong Kong, dove si prepara a un tour in Cina lungo 16 mesi. L’hanno guidata John Wayne, Gary Cooper e Jean Paul Belmondo, Charlie Chaplin a Ischia e Gene Kelly nella Francia di Hollywood («Destinazione Parigi», 1957), il molto cool David Bowie in «Absolute Beginners» 1986) e il «mod» Phil Daniels nell’opera rock Quadrophenia. Un cult internazionale, ma soprattutto il veicolo ideale per tutte le mode, le fobie e le manie di sessant’anni d’Italia. Sulla Vespa accelerano il poligamo Ugo Tognazzi per fuggire dalle sue mogli («Menage all’italiana», 1965), e i paparazzi della Dolce Vita di Fellini; la maneggia nevroticissimo Carlo Verdone («Maledetto il giorno che ti ho incontrato», 1996) per volare dallo psicologo. Nanni Moretti ne ha fatto una stracitata elegia in «Caro Diario», ma Adriano Celentano la usava, versione sidecar, in «Urlatori alla sbarra» già nel 1960. Il vespino 50 operaio di «Mimì metallurgico» era giallo shocking, e tempestato di santini. Walter Chiari, l’immigrato che ha fatto fortuna in America di «Moglie e Buoi» (1956), tornato al paesello parcheggia la Cadillac e inforca una Vespa per «sentirsi più italiano».

La Vespa è nata – anche – grazie ai soldi del piano Marshall, hanno finito per cantarla i Lunapop. Si è fatta copiare l’idea del calendario sexy (Jayne Mansfield, Gloria Paul) dalla Pirelli, ha interpretato lo spirito dei tempi tanto con campagne pubblicitarie «demenziali» («Chi Vespa mangia le mele, chi non Vespa, no») à la page persino oggi, quanto con slogan impegnativi come «Pace chi Vespa», in un 1972 ancora in equilibrio fra figli dei fiori e anni di piombo. L’incarnazione del design perfetto che si trasforma in «brand» vincente. Ne sono stati venduti 16 milioni di esemplari, in 50 paesi. E se la Piaggio è rinata, dopo gli anni della crisi, è stato anche grazie al suo fascino ineffabile. Dopo averci fatti muovere negli anni del boom, chissà che non sia ora ad aspettarci là davanti, lanciata in ripresa sulle praterie dei mercati made in Asia che tanto allettano il suo pilota Colaninno.

di Stefano Semeraro

28/04/2006 – La Stampa

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