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Vecchioni: «Milano non è Frankenstein»

Il cantautore: «L’anatema di Celentano? Provocazione da artista. Però serve più cultura. La politica ascolti i cittadini»

MILANO – «Non sono d’accordo con l’idea di città orribile che Celentano ha dato di Milano», dice Roberto Vecchioni. E non c’entrano le luci a San Siro o le malinconie che diventano dolci con gli anni. E nemmeno i grattacieli che si alzano su un orizzonte troppo grigio. «Tutte le città oggi sono cambiate, e la categoria degli orrori è una variante del pensiero. Ma non è orribile saper ricostruire: io ho la speranza che a Milano si possa ricostruire».

Cammina con il traffico addosso dell’ora di punta, e gli verrebbe facile dire che lo smog «è mostruoso» e la sua città «è diventata un inferno»; ma nella grande poltiglia in cui, secondo il Censis, siamo finiti, Vecchioni riesce a vedere chi porta ancora una fiaccola e testimonia qualcosa di antico. Milano nonostante tutto c’è, lui questa sera ne intercetta una parte: è quella che si ritrova quando si cerca di realizzare un progetto concreto, stavolta un ospedale per i poveri a Nairobi: «La generosità si fa notare se qualcuno ci mette la faccia».

La sua faccia non è contrapposta a quella di Celentano, «lui è troppo grande, troppo simpatico», e forse esagera per «fare rumore» ma gli artisti ci sono anche per questo: «Sembrano dire cose a vanvera e invece ci fanno vedere del fumo che potrebbe diventare un devastante incendio». Il suo botto rumoroso merita attenzione se aiuta a riflettere, spiega Vecchioni, se si discute davvero su cosa manca a Milano. «Per me è la cultura che manca, e non è colpa di Sgarbi che da solo può fare ben poco. Trovo vergognoso che Roma e Torino abbiano grandi festival internazionali, musica, cinema, libri e noi niente. A Milano entra il mondo, ma la sua cultura non è all’altezza: e questo è un segnale di miopia politica».

Cultura da rilanciare, ma anche luoghi da ricercare: non è una scoperta dire che «a Milano non c’è più un posto dove trovarsi per discutere» e bisognerebbe fare uno sforzo per inventarlo, perché, dopo una breve fiammata degli anni Novanta, la città è tornata «a fare del privato una professione», dice Vecchioni. Eppure basterebbero anche le cose semplici, lasciarsi guidare da quello che ci dicono tanti genitori: «Mancano gli spazi per i bambini, i ragazzi, gli artisti, e sono pochi i luoghi di incontro, di comunicazione. Non dovrebbe essere difficile crearne qualcuno: lo si fa l’estate, perché non si può fare la stessa cosa tutto l’anno?». Vecchioni ammette che essere il sindaco di Milano non è facile, vuol dire affrontare problemi immensi «con un intreccio di interessi particolari in conflitto tra loro». La città appare sempre più divisa, ingrugnita. Dovesse fare come Celentano una richiesta al sindaco Moratti, il cantautore le chiederebbe «di stare più sul campo e di fare qualche viaggio in meno all’estero: la partita si gioca qui. Serve una maggiore disponibilità con i cittadini e una grande capacità di ascolto: in Comune non ne vedo tanto».

E cosa vede, Vecchioni? «Vedo una città che oscilla, troppo attenta ai problemi di nicchia, delle élites, e poco sensibile alla povera gente: non esiste più quello che un tempo era il popolare. Ha ragione Renzo Piano, andrebbe riscoperta l’ansia del sociale. La borghesia che prima era un simbolo, un riferimento anche ideale, oggi appare crassa e ignorante. Un tempo questa era una città determinata, un certo ordine nella scacchiera permetteva di conoscere i ruoli delle persone, di sistemare gli strati sociali in ascisse e ordinate, di individuare bene i nemici e gli amici». E adesso? «Oggi a Milano sembra che si sia ristretto il tempo di realizzazione delle cose: così ogni giorno aumentano le necessità e sfuggono gli ideali, si perde così la voglia di progettare e di sognare».

Eppure… «eppure c’è chi porta la fiaccola del volontariato e della solidarietà», dice Vecchioni. E a loro bisogna guardare. Per non essere pessimista si sforza, e punta sui giovani «comici, spaventati, guerrieri», come nella canzone dell’ultimo album, ai quali bisogna dare una base d’appoggio per sognare con i piedi per terra. «Non riesco a fare delle categorie, ci sono giovani e giovani, emergono sui giornali e in tv quelli orientati al peggio, che rapinano, si drogano, molestano, finiscono su You tube mentre aggrediscono un compagno disabile». Ma non sono maggioranza: la maggioranza è un’altra. «È quella che vuole ritrovare una certa idealità, che si è stufata di appartenere a un mondo in cui metà di chi la pensa in un modo ha sempre ragione e metà ha sempre torto». Meglio ricostruire che parlare di orrori a Milano? «Meglio fare, e aiutare chi ha bisogno di noi. Ovunque, ma soprattutto dove la vita per i bambini poveri deve tornare a essere vita».

Giangiacomo Schiavi

11/12/2007 – Corriere della Sera

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