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Un’analisi tecnica della poesia L’ARCOBALENO di Mogol-(Battisti)

arcobaleno

di Rina Brundu. Dell’origine della straordinaria poesia L’ARCOBALENO, cantata da Adriano Celentano e composta da Mogol, ne ho già scritto in un altro post del sito e dunque chi volesse saperne di più dovrà semplicemente cliccare qui. Non è infatti della sua arcinota storia che vorrei parlare in questa occasione, piuttosto mi piacerebbe tentare un’analisi “tecnica” di questo lavoro che per infinite ragioni continua ad ossessionarmi a suo modo, e per altre ragioni è tutt’altro che facile da “analizzare”.

Da un punto di vista tecnico la prima domanda che un qualunque critico dovrebbe porsi nell’avvicinarsi a questa opera è: chi parla? Chi è il narratore onnisciente in queste strofe? Meglio ancora, chi è il deus ex-machina che crea il mondo narrato? La questione non è affatto banale perché a seconda della risposta cambia la significazione e, in questa particolare situazione, può cambiare in un modo anche difficile da razionalizzare, non per questo meno affascinante, anzi.

Di fatto, se parto dall’idea più elementare che il deus ex-machina sia un Mogol che impresta la sua arte e la sua voce d’autore all’amico Battisti che adesso non c’è più, L’arcobaleno si risolve nell’essere una straordinaria poesia che canta l’amore e l’amicizia tra due persone. L’incipit sotto qualsiasi prospettiva è straordinario ed è, a mio avviso, uno dei migliori incipit artistici italiani di ogni tempo. Si tratta di un inizio così potente e così ispirato che fa quasi “tutto” da sé: definisce il “mood” melanconico dell’intero componimento, mette in moto l’azione, presenta il main-character e segna il destino del lettore, catturandolo dentro una presa catartica che non molla, dall’inizio alla fine.

La “storia” poi procede con quel passo segnato, trascinante, cantilenante, intessuto qua e là con metafore che oserei chiamare metasignificanti, ad incastro, dentro uno straordinario campo semantico fatto di opposizioni importanti come quella dei colori dell’arcobaleno vs l'”avvilente e desolante squallore”, dell’idealità immaginata vs la realtà onirica. Tutto il discorso procede poi confortato da questa carica anche emotiva sostanziale,e a mio avviso l’unico momento in cui qualcosa si perde é in chiusura, specie nel passo in cui il cantore dice “ascolta sempre e solo musica vera”, ripetuto in diversi luoghi del testo, che secondo me avrebbe dovuto trovare altra soluzione creativa.

Ma questa è appunto una prima interpretazione, quasi di superficie direi. Diverso si fa tutto il discorso tecnico se prendiamo per un momento in considerazione le tante “storie” che accompagnano la nascita di questa canzone. Se mettiamo da parte il nostro naturale “disbelief”, il nostro scetticismo, e decidiamo coscientemente di non credere all’idea di una trovata di marketing, allora anche la nostra analisi deve necessariamente cambiare. A quel punto infatti l’idea del cantore Mogol che piange il suo amico di una vita, e quindi dell’essere L’arcobaleno un mero testo celebrante una amicizia molto importante, non basta più neppure a soddisfare esigenze esegetiche minime.

Di nuovo, cambia tutto; e a cambiare prima di ogni altro elemento tecnico è il deus-ex-machina nel background, il narratore onnisciente che si racconta, che a questo punto diventa un’unica entità con la personalità defunta di Lucio Battisti. Naturalmente anche se questa fosse la prospettiva più giusta di approccio all’analisi, è pure vero che noi potremmo difficilmente sapere cosa ha inteso dirci Battisti e cosa ci ha detto Mogol sul piano del reale, cosa appartiene a chi, difficile per un quasiasi third-party segnare la linea di demarcazione nel punto giusto.

Tuttavia, possiamo aiutarci pensando che un artista del calibro di Mogol non traviserebbe mai il senso del “discorso” del suo caro amico passato troppo velocemente ad altro livello di esistenza, e quindi il resto del lavoro “interpretativo” sarebbe consequentia-rerum per il “critico”, il quale si troverebbe ad analizzare un testo che si racconta in maniera denotativa con la retorica che trova il tempo che trova. Ne deriva che improvvisamente diventa facile, anche per il lettore che legge queste straordinarie strofe, immaginare quest’anima colta a suo modo impreparata al momento della morte, gravata dai peccati che sono quelli di tutti noi (le “nostre valigie pesanti”), spaesata tra le maglie di una dimensione del tutto nuova, che non comprende (“son diventato sai il tramonto di sera e parlo come le foglie d’aprile”), mentre si dispera perché in fondo avrebbe voluto andare via in altro modo.

L’arcobaleno si trasforma infine nell’unica forma possibile di comunicazione tra cielo e terra, i suoi colori splendenti diventano l’imprescindibile luce con cui illuminare il “desolante squallore” d’intorno, il metodo privilegiato con cui consegnare comunque speranza a chi si ama. Da un punto di vista strettamente tecnico si potrebbe finanche concludere che un’analisi a questo livello implica persino il superamento della meravigliosa e delicata arte retorica che fa vivere questa poesia, quasi come se il mondo-raccontato, alla stregua di un’opera d’arte davvero sui-generis, di retorica non ne abbia bisogno, quasi come se vivesse di una sua forza intrinseca come sovente è la forza della semplicità.

Sarà forse pure per questo che a voler analizzare “tecnicamente” “L’arcobaleno” di Mogol-Battisti (a questo punto la menzione della doppia autoralità è d’uopo), splendidamente cantata da un Adriano Celentano al meglio delle sue possibilità canore tra le note di Gianni Bella, si corre il rischio che si corre quando si sfiorano le ali delle farfalle: si riesce a sporcarle soltanto e la farfalla potrebbe anche morire. Per qualche motivo intuisco però che ciò non accadrà a questa straordinaria poesia che vivrà alla stregua di una gemma immortale. E didattica per l’anima, molto più di quanto possa sembrare ad una prima distratta lettura, o ad un primo distratto ascolto.

20/08/2016 – Rosebud (www.rinabrundu.com)

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