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Il manifesto è un giornale rock ma i pubblicitari non lo sanno

Il manifesto - Sostieni un bene comune

«Quattro ore di fila per ritirare una pensione di 12mila e ottocento lire …», diceva Memmo Dittongo a Gino Santercole nel film «Yuppy du»: «neanche un vestito salta fuori»… meno male che non ho famiglia con tanti disgraziati… se non c’era Felice che mi prestava il suo… «Felice ero io… Era il 1970 quando scrissi il dialogo della scena in cui i due amici impersonavano due poveracci che sognavano di essere due operai specializzati. Un lusso che per il fatto di essere irraggiungibile li faceva sentire diversi… in un certo senso emarginati, radiati dalla società: «se tu eri un operaio» diceva Santercole, «ce l’avevi un bel vestito, doppio petto…». Ma questa era solo una finzione cinematografica, mentre fuori invece, fuori dal cinema, nella realtà di quegli stessi anni o giù di lì, un gruppo di intellettuali di sinistra capeggiati da quelli che tutt’ora sono considerati i grandi vecchi del manifesto, venivano radiati dal partito per aver espresso delle forti critiche alla linea comunista di allora. Un atto clamoroso, se si pensa che tutto questo avveniva quando ancor a l’Unione sovietica era molto potente. Un dissenso che per la Russia di allora voleva dire scandalo, pericolo, sgretolamento. Ma i grandi vecchi non si diedero per vinti e per tutta risposta, assieme ad altri, fondarono il manifesto. Parliamo di Rossana Rossanda, Valentino Parlato e Luigi Pintor, che Berlinguer considerava il più grande giornalista italiano; forse perché tutti e due erano sardi… Inizia così, quindi, la straordinaria avventura dell’unico giornale senza padrone ossia, senza azionisti di maggioranza, con un’indipendenza assoluta e uno spirito di gruppo che non ha precedenti nella storia dell’editoria, non solo italiana, ma credo mondiale. La differenza fra il manifesto e le grandi testate tipo il Corriere della Sera, Repubblica, Il Messaggero, La Stampa e altri, sta nel fatto che i direttori di questi ultimi, anche se stimati e molto apprezzati per la libertà con la quale dirigono il giornale, hanno pur sempre alle loro spalle degli azionisti di maggioranza che, come una spada di Damocle, pende sulle teste dei validi Giulio Anselmi, Ezio Mauro, Paolo Mieli, ecc. Una differenza che apparentemente sembra minima, ma che nasconde invece la tragica possibilità, che improvvisamente gli azionisti di maggioranza si riuniscano per sbattere fuori Paolo Mieli in quanto non più in linea con l’oscuro pensiero da cui essi stessi dipendono: il business… il Capo supremo per eccellenza a cui non si può e non si deve disobbedire. Un capo naturalmente diverso da quello che ha il manifesto a cui invece si obbedisce in base a una credenza, un’ideologia, sia liberale, marxista o cattolica non importa, purché in ognuna prevalga l’onestà intellettuale di chi la professa e, nel manifesto, naturalmente non lo posso dire con certezza, ma da alcuni segni che traspaiono dalla storia di questo giornale, tutto fa pensare che questa onestà ci sia veramente. Per esempio lo si può intuire dal fatto che lì tutti, sia giornalisti che tecnici, guadagnano tutti uguali e, soprattutto poco… un nobile sacrificio che tuttavia pare non bastare a sorreggere la vita di questo singolare quotidiano che proprio in queste ore, rischia di chiudere per mancanza di mezzi. A oggi la sua vendita in edicola è di sole 30mila copie, con un contributo pubblicitario di appena il 10% quando si sa che oggi nessun giornale potrebbe reggere senza la partecipazione di almeno il 40% della pubblicità. Strano l’atteggiamento dei pubblicitari… Cos’è che vi da fastidio a tal punto da non considerare il manifesto come veicolo promozionale? Un errore tattico che da parte vostra proprio non mi aspettavo. La genialità dei vostri microspettacoli che mette addirittura in serio imbarazzo chi di spettacolo invece ha perso ogni traccia sia alla Rai che a Mediaset, non può accostarsi, se non altro per un senso di sintonia e di eleganza, alla genialità dei titoli ormai famosi del manifesto. Ne ricordo qualcuno in particolare, quando per lanciare l’immagine del giornale, il manifesto fece una campagna con la foto di un bambino che dormiva coi pugni chiusi, come fanno i bambini quando dormono. Sotto la foto una scritta che diceva: La rivoluzione non russa… E poi, ancora, quando il ministro Tremonti dopo le sue dimissioni, apparve sul manifesto con il titolo «Ciao tesoro»! Ma la cosa più stupefacente che credo rimarrà nella storia dei titoli, e anche i cattolici non possono non apprezzare la grande ironia, è quando il Papa è stato eletto: «Il pastore tedesco». Geniale. La storia della prima e della seconda guerra mondiale raccontata in due parole… Chi fa della pubblicità non può non considerare, per quanto non condivida la sua linea politica, il valore di quella fascia di élite a cui arriva un giornale come il manifesto il quale, nonostante la sua bassa tiratura, entra nei ranghi di coloro che contano nei punti cardine della società. Cosa ti importa, se sotto la testata del manifesto c’è ancora la parola comunista? Il tuo compito no è quello di far sì che il tuo messaggio arrivi a toccare tutte le fasce della società e, se possibile anche quelle del mondo animale? Voltaire diceva: «Io non condivido niente di quello che dici, ma darei la vita perché tu lo dica»!

Adriano Celentano

07/07/2006 – Il Manifesto

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